L’Aquila – Firenze 5 gennaio 2010

di Chiara Giunti – L’Aquila-Firenze 5 gennaio 2010

1. Il Cratere
(cfr. Foglio aperiodico indipendente n. 01-dicembre 2009 www.ilcratere.net )
Porzione di territorio in vestita in modo distruttivo dal terremoto. Contenitore capace, da cui tutti possono attingere come a una fonte di viva socialità. Sommità di un vulcano, a volte sbocco di eruzioni imprevedibili.
La viva socialità e l’imprevedibilità creativa sta alle Casematte: la sede della Rete 3 e 32 (l’ora della scossa distruttiva del terremoto all’Aquila del 6 aprile 2009), rete di coordinamento dei comitati aquilani. Accanto all’ex ospedale psichiatrico, appunto la casa ufficiale dei matti danneggiata e svuotata, c’è quella ufficiosa e auto-costruita  da un gruppo di persone, giovani in maggioranza ma non manca qualche testa bianca o grigia, che fanno della cittadinanza attiva la loro ragion d’essere. Se c’è una speranza di non perdere l’anima della città dopo che il suo corpo è stato terribilmente colpito, anzi di contribuire a farla rinascere più forte di prima, essa abita qui. In questa casetta di assi e travi di legno, una sala grande con tavolo lungo e sedie, qualche computer una televisione e una stufa, in alto un piano soppalcato chiuso da un lato salvo che per un punto luce e aria, destinato a due-tre posti letto.  Somiglia a un mini maso tirolese. A dieci metri un’altra casetta a un piano accoglie un piccolo bar. Che dici assomiglia a una delle vostre case del popolo? Mi chiede Sara sorridendo mentre mi prepara un tè, certamente rispondo. Si assomigliano tutti i posti dell’autorganizzazione e della partecipazione, e la maggior provvisorietà dei materiali costruttivi (il legno, il cartongesso) ne arricchiscono anzi l’energia aggregante. Di energia concentrata in attenzione ce n’è stata molta nella riunione che abbiamo appena concluso, noi due venuti da Firenze con una quindicina di persone della rete 3 e 32. Si sono presentati e approfonditi insieme i vari aspetti del metodo partecipativo “SOST” che abbiamo inventato e applicato a Firenze e a Lucca, e che loro intendono applicare in una giornata partecipativa dei comitati e dei cittadini aquilani per elaborare una “mappa dei bisogni” da presentare al nuovo commissario per il dopo-terremoto. Chiodi, il presidente della regione Abruzzo, che s’insedierà dal 1 febbraio ereditando molti dei poteri di Bertolaso. L’iniziativa partecipativa dovrebbe essere il 30 gennaio, se ce la faranno a prepararla bene. Tre ore d’incontro denso, pieno di domande e qualche risposta e proposta, se ne esce col senso di un’impresa in costruzione, precaria quanto appassionante. Noi due non ripartiamo subito: prima ci aspetta una visita nel centro terremotato.

2. La visita
Piove a dirotto nella sera calante sui palazzi puntellati del corso principale del centro dell’Aquila, lucine natalizie si agitano al vento, assurde sui ponteggi che attraversano la via da una parte all’altra. Sotto i portici non si può passare per ripararsi, chiusi anche quelli da reti e tralicci.  Sbuchiamo in piazza Duomo e non si va più avanti: la piazza e il prosieguo del corso sono chiusi da una lunga rete a maglie larghe che segna il confine della “zona proibita”: tutto il centro storico devastato, recintato e reso impercorribile e inguardabile.

Oltre qualche casotto prefabbricato della Protezione civile si riconosce la facciata della chiesa delle Anime sante che è diventata uno dei simboli televisivi del terremoto, l’altro, l’edificio storico della Prefettura, non si vede perché resta dietro, nascosto nella zona off limits. Ci spostiamo su un lato della piazza, non c’è nessuno in giro e cautamente il nostro “Virgilio” sposta l’angolo della rete e uno ad uno sgattaioliamo oltre il confine, nell’inferno proibito e immoto. Si corre per trenta metri in silenzio allontanandoci alla vista di eventuali controlli, tutto tace tranne la pioggia che continua a cadere sulle pietre smosse, sui puntelli e le travi, sul pietrisco della strada che scricchiola sotto i nostri passi, un po’ intimiditi annusiamo e scorgiamo una solitudine silenziosa e buia. Non ci sono luci nella città morta, nemmeno quelle di emergenza dei cantieri. Il solo chiarore viene dal cielo, riflesso delle luci delle zone più periferiche della città e dell’altezza montana del luogo, dove più lentamente scende la notte. Si svolta un angolo e s’incontra il frontone spezzato del “Palazzo del governo”, dietro e di lato tutto crollato. Si cammina solo in mezzo alle vie, lungo le case corrono cordoni di macerie spezzettate di pietre e sassi, più in alto ponteggi e puntelli, ma non ovunque. Su un angolo una casa antica non puntellata, il primo piano dissestato si appoggia sulla casa accanto, in mezzo un grande buco dell’arco diroccato oltre il quale s’intravede l’antico cortile invaso di macerie.  Un’altra scossa o una pioggia più violenta e tutto può cadere definitivamente, giù. Più oltre travi di legno in croce chiudono gli occhi di finestre senza vetri e buie, puntelli di legno sostengono le volte dissestate degli archi in pietra  delle porte di case senza più nessuno dentro. Come un’enorme esplosione che abbia disperso migliaia di abitanti in un raggio di trenta-ottanta chilometri, fa effetto poi vedere l’Aquila dall’alto: una cintura di luci e in mezzo il cuore tutto nero del centro.  Hanno detto che l’emergenza è finita, che il centro è riaperto, ma non è vero. Il terremoto ha colpito il corpo della città, ma il dopo terremoto le sta portando via l’anima, se non si mobilitano rapidamente anticorpi di partecipazione attiva negli abitanti. Camminiamo e così a sprazzi ci parlano i nostri compagni-guide, col groppo in gola e il batticuore nella sospensione di vita che ci circonda. L’odore di pietre e polvere bagnata e il silenzio freddo mi riecheggiano impressioni lontane, fra cui emerge vivida quella dell’alluvione del ’66 a Firenze: identiche le prime ore dopo il ritiro delle acque, nella rovina e nella cessazione brutale della normalità quotidiana e domestica. Sbuchiamo in una piazzetta ancora invasa da un cumulo di macerie con sopra un’automobile bianca scassata: uguale effetto della ribellione della terra e dell’acqua sui beni umani di consumo. Ma forte spicca anche la differenza: nel fango si cominciò subito ad organizzarsi, in una pullulante reazione dal basso singola e collettiva, fatta di scope secchi e comitati di base, ma anche di parrocchie e case del popolo e sezioni dei partiti della sinistra. Quando vanno giù le case è tutto più difficile, e ancor più se l’emergenza viene militarizzata dalla Protezione civile monocratica di Bertolaso e Berlusconi, in un quadro nazionale e locale di profonda crisi della politica. Si ragiona così nel buio umido e desolato,  tutti i nodi ci vengono al pettine e l’angoscia aumenta, finché poniamo fine al giro clandestino. Troviamo un’uscita libera da controlli, spostiamo leggermente la rete e rientriamo nella “legalità”. Ci accoglie un mercatone dell’Epifania fitto di gente e di venditori ufficiali e abusivi, che corre lungo le mura puntellate dei palazzi, in un calore insieme rassicurante e straniante…la merce e il vuoto, la folla e la solitudine: è la cifra comune di questo tempo nostro, che la città terremotata impietosamente mostra senza veli.

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