L’Aquila 15 anni dopo: come si nutre un vuoto?

Ogni anno in più che passa, confrontarsi con l’anniversario del 6 aprile, diventa un esercizio sempre più difficile.

E’ necessario però interrogarsi su cosa questo giorno rappresenti oggi, tenendo presente forse che di 6 aprile ce ne sono molti, compresi quelli di chi quel giorno era molto giovane o magari non ancora nato.

Per questo è molto importante portare avanti la memoria delle 309 persone che quella notte persero la vita, ma contemporaneamente lottare per costruire un futuro migliore e condiviso per questa città.

Lo abbiamo sempre fatto sin dal 2009, oggi però i processi partecipativi sono sempre più difficili: da una parte si fa sempre più avanti un senso di rassegnazione e di impotenza, dall’altra c’è la tentazione di volersi illudere riguardo una cosiddetta rinascita, fatta però solo di apparenza e non di una effettiva, quanto indispensabile, ricostruzione sociale.

A quindici anni dal sisma possiamo dire di sentirci per lo più stranieri perché da queste nuove strade tirate a lucido guardiamo un’altra città che molto poco ci rappresenta.

Ci siamo chiesti cosa manca, lo abbiamo chiesto anche con un sondaggio per confrontarci con più punti di vista, per dar voce a chi non viene interpellato ma che la città la vive.

Quello che è emerso è che dentro questa prospettiva di ricostruzione, che riduce il centro storico a mero spazio per turisti e niente altro, essenzialmente manca tutto, manca il vivere quotidiano dei suoi cittadini o di chi lo vorrebbe diventare.

Crediamo che sia fondamentale continuare a batterci per un centro storico accessibile, pieno di residenti, scuole, cultura, servizi, a misura delle giovani generazioni. C’è bisogno di spazi di aggregazione, di socialità gratuita. C’è bisogno di luoghi che facciano gli interessi di una città che raccoglie tutte le generazioni, che riconosca più modi di vivere e più possibilità di fare economia.

E su cosa si baserà, e si basa adesso, l’economia? La storia recente ci ha già insegnato che una economia basata sulla turistificazione crolla con il primo virus, entra in crisi al primo starnuto.

Una città di settantamila abitanti (che in questi quindici anni ne ha persi circa quindicimila), o comunque un qualsiasi luogo comunitario, non può essere pensato sull’idea di pochissimi.

Una città così svuotata, che aspetta l’arrivo del turista, ma nel frattempo annaspa per sopravvivere, è come quel grande spazio vuoto che ci portiamo tutti dentro.

E’ quindi urgente e necessario che chi amministra comprenda che un luogo vuoto, come lo è per la maggior parte della giornata il centro storico dell’Aquila, oltre a disgregare, a separare gli abitanti, a non creare le fondamenta di un tessuto sociale solido, rischia di favorire la criminalità che nessuna telecamera potrà arginare, tanto meno altre mille.

La sicurezza dei luoghi la fanno le persone che li attraversano e che li vivono, è questo che rende una città anche una comunità.

Ci piacerebbe con queste parole riuscire ad aprire un dibattito con la città, creare uno spazio di condivisione e di proposte affinché nessun si senta passivo, straniero o escluso dai processi di ricostruzione.