Il salto carpiato di Bertolaso

(da Repubblica 11 maggio 2009, di Antonello Caporale)
Il funerale del primo morto della tenda è di qualche giorno fa. Un uomo, quarantenne, è deceduto all’ospedale di Castel di Sangro per complicanze polmonari occorse sul suo corpo già gravato dalla malattia e purtroppo ricoverato sotto la tela. La probabilità che altri funerali dovranno celebrarsi è piuttosto alta. Diciamo almeno pari alla rabbia che, questione di giorni, tracimerà se le condizioni di vita nelle tendopoli si confermeranno ancora così spietate e impossibili.

Esistono segnali concreti, basta chiedere ai medici e agli infettivologi, dell’innalzamento delle situazioni acute che già oggi si presenta allarmante. La tenda miete vittime, e questo si sa. E i decessi nel periodo appena successivo a una catastrofe naturale toccano storicamente punte fuori dall’ordinario. In Irpinia decine e decine furono i morti, soprattutto anziani, nel periodo racchiuso tra la data dell’evento (23 novembre) e la fine dell’estate successiva (30 agosto). Malattie e decessi si contarono anche in Friuli. Friuli ed Irpinia sono le comparazioni possibili essendo i terremoti dell’Umbria e del Molise molto più modesti per forza distruttiva e decisamente localizzati in aree di dimensioni contenute.

La tenda, dunque, se è una compagna preziosa nelle ore immediatamente successive alla catastrofe, diviene nemica già dopo la seconda settimana di soggiorno. All’Aquila rischia di restarvi piantata più di dieci settimane. Anzi più di venti. Forse più di trenta. Il salto carpiato verso il rischio infinito lo si deve a Guido Bertolaso, l’uomo con la tuta, il pluridecorato comandante della Protezione civile, pluricommissario, plenipotenziario del governo, regista e principe in ogni disgrazia e attore protagonista di tutti i grandi eventi che il governo, con un tocco di eccentricità, li rubrica come emergenza nazionale per infilarli sotto la sua ascella.

Ma l’Abruzzo e Bertolaso sin dall’inizio non hanno legato bene. “Le scosse di terremoto che continuano a scuotere l’Abruzzo non sono tali da preoccupare, ma purtroppo a causa di imbecilli che si divertono a diffondere notizie false siamo costretti a mobilitare la comunità scientifica per rassicurare i cittadini”. Come una targa a memento perpetuo, questa frase segna il carattere di travolgente certezza che anima i passi e le parole dell’uomo con la tuta. Vero, Bertolaso non poteva dire altro. Ma forse lo poteva dire diversamente. E, questo è sicuro, fare qualcosa di più prima per tentare di mitigare il pericolo, nel caso lo si fosse ritenuto concreto.

Il suo ottimismo, così denso e certo già prima della catastrofe, ha convinto il governo nelle giornate successive alla distruzione del capoluogo abruzzese ad adottare per il piano di ricostruzione la più ardua delle operazioni possibili: lasciare gli aquilani nelle tende fino a quando vere case non saranno costruite. Case asismiche ed eco-compatibili, moduli abitativi ad alto livello tecnologico ed elevata componibilità. Sei mesi appena nell’inferno della tendopoli per poi passare direttamente nel paradiso del campus, dei quartieri edilizi residenziali, di una abitazione comoda e sicura. E certa.

Mai era accaduto prima d’ora e c’era un perché.
L’emergenza post-terremoto ha sempre conosciuto tre fasi durante le quali si sviluppa l’accoglienza, il sostegno e il reintegro abitativo. Una prima, di puro soccorso (fase a), con alloggiamenti di pronta realizzazione (tendopoli e/o roulottopoli), una seconda (fase b) con alloggiamenti a realizzazione differita e caratteristiche di ricovero a più lunga sostenibilità (moduli metallici o casette in legno monofamiliari); e poi la ricostruzione definitiva, la fase c. Ma il governo ha scelto di ridurre la catena e saltare completamente la seconda fase. Magari una telefonata a Giuseppe Zamberletti, deputato di lungo corso democristiano, padre della legislazione sulla Protezione civile, che prima e meglio degli altri (forse meglio anche di Bertolaso) ha valutato le opportunità e le caratteristiche delle singole fasi, teorizzando la necessità di un gradualismo che allentasse la domanda alloggiativa in un contesto di civile ancorché precaria sistemazione.

Invece niente. A Berlusconi non è parso vero fare a meno delle “baracche” (“gli sa troppo di campo rom”, riferì il frastornato e inconsapevole sindaco dell’Aquila nelle ore immediatamente successive al terremoto), quando Bertolaso ha proposto al consiglio dei ministri di dar fiducia alla sua idea straordinaria di realizzare case, anzi c. a. s. e. acronimo che sta per “Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili”. Veri alloggi, palazzine a due o tre piani costruite su piastre di cemento a tecnologia giapponese, assorbenti l’energia sismica attraverso i “dissipatori”, cuscinetti che rullano, ammortizzatori formidabili.

Le case a molle, idea magnifica! E soprattutto idea brevettata dalla Protezione civile in collaborazione con una propria fondazione, il centro europeo di formazione e ricerca in ingegneria sismica, l’Eucentre.
Fatta questa scelta e coniugatala a una seconda (“No a una tassa di scopo per la ricostruzione in Abruzzo”) l’esecutivo si è consegnato al capitombolo: o la va o la spacca. Queste case – “a durevole utilizzazione” – costano tanto, e tutti i soldi cash sono stati impegnati per farvi fronte. Quindi al resto delle necessità si è consegnato un decreto dai risvolti esoterici, un abracadabra di impegni presi eppure tenuti sospesi una coltre di nebbia. I soldi per le case in pietra ci sono, ma forse non ci sono. Ciascuno avrà 150mila euro per rifarsi un tetto. Ma forse di meno. O forse di più. Gli allegati tecnici al decreto sulla ricostruzione consegnano purtroppo l’impressione di un testo piuttosto confuso, enormemente impreciso, tecnicamente poco consapevole, a tratti con un sostenuto invito alla supposizione, vedasi le lettere a) ed e) alla relazione di accompagno e interpretazione dell’articolo 3 del decreto legge. Però s’è detto: c’è stato un qui pro quo.

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