Né zone rosse, né zone franche. Eventi estremi, conflitti e ricostruzione sociale

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Di quale realtà questa crisi è lo spettacolo?
[Alain Badiou]

Tra i tanti tentativi messi in atto per delegittimare le ragioni del conflitto sociale in questi giorni, il più subdolo, ma anche il più sciocco, consiste nel cercare di mettere i comitati locali contro chi manifesta contro i presunti padroni della terra. E’ una provocazione evidente, testimoniata dalle parole del portavoce del governo che ha dichiarato da subito che con tale scelta «avrebbe voluto vedere con che cuore si sarebbe potuto manifestare a L’Aquila». Proprio perché abbiamo ancora un cuore e un cervello siamo qua, abruzzesi ma non solo, per analizzare – provando a renderlo esplicito – il legame stretto che esiste tra la gestione del post-terremoto e le più generali tecniche di governance di un capitalismo fallito e che si vorrebbe salvare con le risorse pubbliche pagate dai lavoratori e sottratte all’ambiente.

Tra i tanti tentativi messi in atto per delegittimare le ragioni del conflitto sociale in questi giorni, il più subdolo, ma anche il più sciocco, consiste nel cercare di mettere i comitati locali contro chi manifesta contro i presunti padroni della terra. E’ una provocazione evidente, testimoniata dalle parole del portavoce del governo che ha dichiarato da subito che con tale scelta «avrebbe voluto vedere con che cuore si sarebbe potuto manifestare a L’Aquila». Proprio perché abbiamo ancora un cuore e un cervello siamo qua, abruzzesi ma non solo, per analizzare – provando a renderlo esplicito – il legame stretto che esiste tra la gestione del post-terremoto e le più generali tecniche di governance di un capitalismo fallito e che si vorrebbe salvare con le risorse pubbliche pagate dai lavoratori e sottratte all’ambiente.

Il modo in cui il governo italiano sta affrontando il terremoto de L’Aquila interessa tutti proprio perché rappresenta la modalità normale con cui il capitalismo gestisce da alcuni anni a questa parte eventi eccezionali come terremoti, carestie, guerre, crisi economiche. Esproprio dei poteri decisionali delle comunità locali, militarizzazione del territorio, centralizzazione del comando nelle mani di organismi non elettivi: è la pratica dello stato di eccezione, diventato norma anche in un paese come l’Italia in cui lo stato di emergenza è stato dichiarato centinaia di volte, per la crisi di approvvigionamento idro-potabile in Sicilia, per l’eruzione dell’Etna, per il terremoto in Molise, per la laguna di Orbetello, per la laguna di Venezia, per lo tsunami in Asia, per i rifiuti in Campania, per l’attraversamento di mezzi pesanti nella città di Messina, per la messa in sicurezza del Gran Sasso, per la guerra in Iraq, per «lo straordinario afflusso di extracomunitari», in ultimo per Viareggio.

E’ la legge istitutiva della Protezione civile [n° 225 del 24 febbraio 1992] che autorizza l’attribuzione di poteri speciali al capo della Protezione civile in relazione a «calamità naturali, catastrofi ed altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari». Si tratta evidentemente di un testo di legge che , legando la straordinarietà non già all’evento, ma ai mezzi e poteri in grado di fronteggiarla, lascia volutamente nel vago i possibili ambiti di applicazione introducendo un notevole margine di discrezionalità nell’applicazione di una norma che si configura come la classica eccezione sovrana.

Gli spazi delle città e i tempi della vita quotidiana dei suoi abitanti vengono, con il pretesto degli eventi eccezionali, ridisegnati in una cornice emergenziale in cui nuove strutture di potere – nel caso italiano il Dipartimento della protezione civile – si assumono il compito di dettare legge sui comportamenti di persone non più considerate soggetti di diritti, ma sudditi oggetto di misure di disciplina e/o vittime da assistere e controllare, naturalmente nel loro interesse.

Il modello che viene fuori dalla gestione degli eventi eccezionali è un mix di militare e aziendale, composto da zone rosse e zone franche, divieti di organizzazione e di espressione del dissenso, assieme a pratiche economiche totalmente sottratte ai normali controlli di gestione.

Anche i divieti apparentemente più incomprensibili come quello di poter prendere un caffè si spiegano con la logica – tipicamente biopolitica – di controllare i corpi e i bisogni elementari delle persone [i pasti, le brande, il riscaldamento, i vestiti] per poter poi disporre arbitrariamente dei diritti rendendo più difficile esperimenti di autoorganizzazione o di disobbedienza.

E’ una trasformazione radicale dei vecchi dispositivi tipici della democrazia rappresentativa, messi da parte in nome di una nuova logica in cui il governo è sostituito dalla governamentalità, quasi che il governo degli uomini dovesse venire assimilato a quello delle bestie, da cui in ultima analisi il termine prende la sua origine.

E’ l’intera struttura del dominio nel mondo occidentale che ritrova nel suo periodo di decadenza tracce del capitalismo delle origini, a partire dai meccanismi di accumulazione originaria che oggi come prima di due secoli fa tornano o continuano a basarsi sulla rapina delle risorse del Sud del mondo, sullo schiavismo, sulle guerre, sul neocolonialismo, sull’emigrazione.

Per cercare di giustificare queste modalità disumane in cui si presenta oggi l’imperialismo, un contesto in cui, a fronte di uno sviluppo senza precedenti delle forze produttive che consentirebbero al settore agricolo di sfamare il doppio della popolazione mondiale un miliardo di persone muore ancora di fame, non basta più la narrazione – tipica degli anni ’80 e della prima metà degli anni ’90 – basata sul refrain «ce la puoi fare», «tutti possono diventare imprenditori», o cose del genere. Il mito della new economy è andato in frantumi con l’esplosione della bolla speculativa costruita nella seconda metà degli anni ’90 e poi scoppiata nella primavera del 2000, prima dell’11 settembre.

La pubblicità dello yuppie rampante si è negli anni trasformata in quella che il filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Zizek definisce «lacanianamente» come una sorta di «ingiunzione superegoica al godimento». Non è che puoi farcela, ma devi farcela, devi riuscire a fare soldi ad ogni costo e in fretta, non importa il come, conta solo arricchirsi, e questo messaggio, che serviva a giustificare a livello psicologico individuale l’ondata di rapine di risorse, privatizzazioni e liberalizzazioni selvagge rivolte prevalentemente ai governi degli Stati del Sud del mondo, nasconde il suo doppio osceno aziendal-militare, che consiste nelle punizioni per chi non si adegua.

Sul piano macro, il non ottemperare ai diktat dell’imperialismo ha significato aggressioni militari ai paesi magari ricchi di risorse, di infrastrutture, con una classe operaia combattiva, ma restii a farsi dettare l’agenda dal Fondo monetario internazionale: guerre, a cui i governi italiani hanno partecipato e continuano a partecipare come nel caso dell’Afghanistan, un paese che non ha mai con tutta evidenza né attaccato né minacciato l’Italia e che però è invaso da truppe straniere comprese quelle italiane che si trovano lì fuori e contro la Costituzione ridotta a carta straccia.

Sul piano micro, individuale, chi ha creduto al mito yuppie ma «non ce l’ha fatta» ad arricchirsi, o perché non se la sentiva e non se la sente di pagare il prezzo o perché, pur volendolo, nel capitalismo reale «uno su mille ce la fa», è entrato drammaticamente e violentemente in crisi, finendo per addossare a se stesso, anziché alla logica aberrante del profitto, le responsabilità dei suoi insuccessi.

Da qui il disagio, soprattutto giovanile ma non solo, che si è trasformato e si trasforma tuttora in forme di autodistruzione che possono andare dai tentativi di suicidio all’eroina, o assumono le forme di un disincanto e di un disimpegno che normalmente prelude alla rottura dei legami sociali.

I ragazzi e anche i meno giovani semplicemente e terribilmente non hanno speranze a partire dal lavoro, e questo perché la logica normale del capitalismo è basata sulla formazione continua e crescente di masse di lavoratori in «esubero», «eccedenti» rispetto all’obiettivo del profitto.

In realtà non sono i paesi cosiddetti «in via di sviluppo» che non ce la fanno, visto il paradosso per cui il risparmio mondiale si forma oggi al Sud: sono loro che non ce la fanno, il G8. Ma loro si autoassolvono, si salvano con le risorse pubbliche e si perdonano. Noi non li perdoniamo.

Se la narrazione del «ce la puoi» e dopo «ce la devi fare» è andata definitivamente in frantumi sotto il maglio della crisi, l’ultima è puntare sull’emergenza, nel doppio senso di cercare per il capitale di trarre profitto da eventi catastrofici purtroppo sempre più numerosi a causa della natura ecologica ed economica della crisi del modello capitalistico di sviluppo [la «filiera verde» in un contesto capitalistico serve solo a preparare la prossima bolla speculativa verde] e contemporaneamente cercare di gestire gli inevitabili conflitti sociali cui assisteremo nei prossimi anni, in nome dell’emergenza.

Da questo punto di vista, i campi de l’Aquila, così come le nuove tendopoli che sorgono nelle città americane, rappresentano solo l’ultimo esempio di modelli di sperimentazione sociale con il pretesto dell’emergenza il primo dei quali è rappresentato dai campi profughi palestinesi la cui tragedia comincia nel 1948 e che in questi mesi vede la ricostruzione di Gaza materialmente impedita dall’esercito di Israele che vieta l’entrata nella striscia non solo alla solidarietà internazionale, ma anche ai carichi di cemento.

La logica dell’emergenza agisce grazie a dispositivi di governance in cui il ruolo della comunicazione è centrale. Anche in questo caso il copione recitato dai mezzi di disinformazione a proposito del terremoto è stato scritto in precedenza, con in più quel tocco di cafonal in stile Fininvest che caratterizza il caso italiano. La gestione mediatica degli eventi eccezionali si alimenta di miti, uno dei quali è quello per cui un disastro come un terremoto o una crisi economica è certamente un evento negativo, ma «anche un’opportunità da sfruttare», evitando accuratamente di aggiungere per chi.

Nel nostro caso l’opportunità sarebbe rappresentata dal G8, ma gli abitanti de L’Aquila che vivono il terremoto e non assistono al suo spettacolo hanno avuto ben presto l’intelligenza di capire che – ad oggi – i lavori di preparazione del circo G8 hanno avuto come unico effetto visibile quello di rallentare i lavori di ricostruzione. Altri effetti per così dire collaterali riguardano la militarizzazione del territorio, anche questa più che visibile, e l’aggiudicazione di appalti miliardari sottratti alle normali procedure, più opachi, ma gestiti dalla stessa consorteria aziendal-militare che prospera attorno alla Protezione civile.

Ha scritto Roland Barthes che il mito consiste nel trasformare in naturale ciò che invece è prodotto dalla storia: a un dato momento i bianchi dominano i neri o l’Europa comanda il mondo e allora si costruisce il mito per cui i bianchi o gli europei sono superiori ai neri o agli arabi o ai cinesi. Così un evento eccezionale come la crisi economica o il terremoto è presentato innanzitutto come un fenomeno naturale, di natura accidentale, le cui responsabilità non possono essere attribuite a comportamenti di persone o istituzioni. I terremoti o le crisi economiche semplicemente accadono, e non possiamo farci nulla salvo affidarci ai pompieri.

Dal punto di vista ecologico, la storia dell’umanità è al contrario la prova di come anche civiltà estremamente evolute siano scomparse perché i gruppi dirigenti hanno scelto deliberatamente di ignorare i segnali di pericolo, né più né meno di adesso, che di strumenti ne abbiamo infinitamente di più, stante lo sviluppo e la socializzazione senza precedenti delle forze produttive.

Ma non solo. La natura di un evento eccezionale come una crisi economica o un terremoto è altresì in grado di rivelare, in filigrana, la cartografia di rapporti di potere spesso resi opachi nelle situazioni «normali». Si sa più e meglio chi ha costruito la tal casa, l’ospedale, chi non ha vigilato sulla casa dello studente, e quest’informazione diffusa nelle comunità può produrre, come sta accadendo nel nostro caso, una presa di coscienza, la nascita di aggregazioni nuove, la possibilità di conflitti e di controllo sociale, e allora la macchina del controllo informativo spettacolare si deve mettere in moto per disinnescare la mina cercando, da un lato, di depotenziare i conflitti dividendo il fronte di chi resiste, per esempio mettendo la comunità contro i ‘forestieri’, dall’altro cercando di restaurare la fiducia scossa nelle istituzioni in ogni modo possibile.

Per nostra fortuna, negli anni più recenti alcuni scienziati sociali indipendenti dal potere hanno studiato come operano questi dispositivi, e questo lavoro di ricerca è stato particolarmente rilevante nel caso della disastrosa gestione dell’uragano Katrina negli Usa, che secondo molti ha segnato il definitivo affossamento della pessima amministrazione Bush.

Non ricostruire il centro storico di una città vuol dire minare alla radice l’anima di una comunità, questo è ben chiaro a tutti, mentre – forse – meno evidente è il modo in cui le relazioni sociali determinano il destino di chi viene maggiormente colpito dagli eventi eccezionali, i cui danni si distribuiscono lungo linee di frattura definite dalla classe di appartenenza, dalla razza, dal genere, dall’età.

Non è vero che un evento eccezionale unisce solo: questo accade all’inizio, poi le relazioni sociali e di potere, in assenza di un protagonismo sociale consapevole, non solo riemergono, ma spesso si rafforzano, così come dalle crisi economiche emergono pochi grandi gruppi economici e finanziari che rappresentano un grado maggiore di centralizzazione del capitale.

In questo senso, la retorica degli eventi eccezionali [terremoti, crisi economiche] che andrebbero considerati come potenziali «opportunità» nasconde una verità più spiacevole: come è stato notato nel dibattito su Katrina i disastri il più delle volte accrescono le disuguaglianze sociali e aumentano il potere delle classi dirigenti.

Gli «specialisti del dolore» spiegano che ci sono delle fasi nella sequenza del «post-disastro», ma non si tratta solo di dinamiche psicologiche o individuali. Si tratta, per il potere, esattamente di sventare il pericolo rappresentato dalla messa a nudo dei rapporti sociali. Quando si verifica una catastrofe, la comunità colpita tende immediatamente a unirsi, e allora si tratta di dividerla, spesso con i soldi, se è poi una comunità «tosta» che intende far valere le proprie ragioni e i propri diritti, il problema per il potere è disinnescare questa mina. Rassicurando e re-imponendo l’ordine.

L’imperativo è evitare i conflitti sociali. A questo servono i provvedimenti di emergenza. A questo serve la ricerca di un capro espiatorio. A questo il ruolo di ‘salvatore’. In questo mito che ritorna, sempre uguale e sempre diverso, cambiano solo i nomi degli attori, non il dispositivo.

Nel caso della crisi economica il ruolo dei salvatori/pompieri viene oggi giocato dalle banche, lo stesso soggetto paradossalmente accusato pochi mesi prima di averla causata la crisi. Colpevoli, poi salvati [perdonati?], infine gratificati con un maggior potere di controllo e vigilanza su… su sé stessi.

La credibilità del potere sta a zero, altrimenti non si spiegherebbe la scelta di celebrare il G8 dei falliti facendosi scudo delle popolazioni de L’Aquila.

Un G8 consumato tra le macerie che spende più di tremila miliardi di dollari per salvare banche e imprese fallite mettendo sotto ipoteca ogni possibilità di spesa sociale per i prossimi anni è la migliore metafora del capitalismo che potessero inventarsi.

Un commento

  1. interessante, giusto, fondamentale. Non possiamo andare da nessuna parte senza analizzare i punti di partenza, le forze in campo, senza chiarire i punti di arrivo.
    Effettivamente la lettura sociologica di quanto sta avvenendo è carente nei dibattiti e nei comitati. E questo è uno dei motivi per cui siamo molto deboli. sarà ora, secondo me, di smetterla di voler essere “neutrali” a tutti i costi e cominciare a chiamare le cose col loro nome. Per esempio le banche: facciamo un po’ di chiarezza: a l’aquila le banche stanno affossando quel poco di economia ancora in vita, altro che aiuti. Estorcono denaro a tanti con i conti in rosso (di sole centinaia di euro, bloccano carte di credito, sospendono gli affidamenti ……. tranne che ai soliti noti). Ma qualcuno dice qualcosa? no, tutti d’amore e d’accordo, sorrisi e strette di mano. e poi, sul futuro, la prospettiva dello sviluppo economico della città: ci vogliamo cominciare a pensare? O ci interessa solo riavere quello che non abbiamo più? Lo sappiamo tutti che una volta fatte le ca.se (necessarie a chi sta in tenda, indispensabili direi) come le ha decise il governo, da li la gente non esce più: altro che provvisorie, e il governo lo sa meglio di noi. Non dobbiamo nasconderci la verità: andiamo al fondo dei problemi e ragioniamo di essi. La città sarà anche i suoi satelliti (e che si sappia, per affrontare i problemi di mobilità, scuola, uffici). E forse nei satelliti alloggeranno i meno abbienti. Anche questo va detto ora. Con questo dovremo fare i conti. L’economia del commercio sta già riprendendo, ma oltre alle botteghe, cos’altro ci sarà? Finite le costruzioni licenzieranno anche le imprese edili, come trascom, come tecnolab. Quanti posti di lavoro in meno? E chi supporterà le piccole imprese, affinchè non chiudano anch’esse? Vivremo sempre più di uffici e scuole: ma quanti sono i cittadini che hanno un posto statale?
    La forza di una azione politica viene dalla chiarezza, dalla strategia e dalla comunicazione. Iniziamo presto prestissimo a fare chiarezza: siamo troppo in ritardo. Nei preziosi contributi che riceviamo da tutto il mondo (guardando i vari siti collegati ce ne sono molti) possiamo trovare le basi di un dibattito che per ora è rimasto troppo terra terra all’esterno. voglio dire che, al di là del dibattito interno, dai comitati appare solo una piccolissima parte dell’analisi, e comunque la più populista e la meno colta: questo va bene per fare un deciso autogol. Questo va bene a chi non vuole cambiare nulla. Questo può andare bene a chi vuole L’Aquila com’era: una città che aveva raggiunto il punto di massimo degrado, sudicia, stanca. immobile, mafiosa, i cui rampolli di buona famiglia avevano già pronta la valigia per andare a lavorare altrove.
    francesca

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