La prigionia e l’esilio.

di Marco Valeri
E’ passato più di un mese da quando L’Aquila è stata devastata dal terremoto. Da più di un mese per noi aquilani sono iniziati la prigionia e l’esilio. La prigionia nei campi e l’esilio negli alberghi e negli alloggi in posti lontani dalla nostra città.
Due condizioni diverse che ci dividono spazialmente e creano fra noi inutili tensioni da cui non dobbiamo farci indebolire. Credo che nessuno a dicembre, quando ha iniziato a tremare la terra, immaginasse cosa sarebbe accaduto di lì a pochi mesi; credo che nessuno potesse essere preparato ad un terremoto di una simile portata e credo che “forse” nessuno possa esserlo. Forse! Fatto sta che nessuno di noi era preparato nonostante fosse un evento preannunciato. Preannunciato non da sismologi o geologi o altri, ma dai movimenti della terra. Nessuno di noi dico era preparato: non lo era il governo, non lo erano le istituzioni locali e regionali, non lo erano i cittadini, non lo era Bertolaso con la sua Protezione Civile. Il sisma della notte fra il 5 e il 6 aprile ha distrutto tutto il centro di L’Aquila, Onna, Paganica, Villa S.Angelo, e tanti altri comuni, ha procurato danni di diversa entità nel raggio di trenta chilometri, ha causato trecento morti. Ha distrutto il capoluogo di una regione. All’indomani del sisma i telegiornali hanno iniziato a sminuire la portata dell’evento, abbassando di diversi punti della scala Richter la forza del Terremoto, e falsando per giorni su tutte le reti nazionali, e su tutta la stampa la realtà dei fatti, ristabilita nei giorni seguenti dai rilevamenti fatti sia dai centri nazionali che internazionali. Questo ha fatto sì che gli aquilani oggi si portino dietro un’onta che ci stigmatizza come truffatori pronti a costruire case di cartone, di gesso e sabbia pur di guadagnare sulla vita di studenti o degli altri stessi aquilani.

Oggi chi può guardare l’Aquila e i luoghi distrutti dal sisma, sa che il numero dei morti di questa catastrofe poteva essere molto più alto, e chi è vivo credo che abbia avuto solo molta fortuna e credo che quindi ora abbia delle responsabilità. Ora dividiamo la vita fra quello che c’era prima e quello che ci sarà poi, lottiamo quotidianamente per trovare un senso ed una utilità alle nostre azioni, ma il senso spesso sbiadisce facilmente. La distruzione di un luogo per coloro che sono rimasti in vita prevede una riorganizzazione che mette paura. Una riorganizzazione per la quale c’è bisogno di pazienza, di coraggio, di restare attaccati alla bellezza della vita, di restare uniti persino nella diversità delle sorti e delle prospettive. L’organizzazione della popolazione all’indomani del sisma, in piena emergenza, ha dato la possibilità a diverse migliaia di persone di restare nei campi tenda, e ad altre migliaia di persone di riparare sulla costa, negli alberghi. E sia chiaro che tanto nei campi quanto negli alberghi noi siamo ospiti, anche a casa nostra. Ospiti!

Conosco persone che non sono potute andar via poiché non avevano e non hanno una macchina, con sulle proprie spalle la responsabilità della propria famiglia. Ne conosco altre che anche potendo andar via, sono volute restare lì vicino alle proprie case. Conosco altri che come me sono andati via nonostante la casa fosse rimasta aperta e in mano a possibili atti di sciacallaggio, ma sono andati via per paura di vedere i propri genitori crollare, di non superare uno shock che in quel momento sembrava irreversibile, altri sono andati via perché avevano figli piccoli e volevano proteggerli, altri mogli in cinta … Così è avvenuto per forza di cose lo smembramento di una comunità. Oggi ci sono all’incirca 176 campi che sono 176 piccole L’Aquila, non so quanti alberghi si siano attivati per questa emergenza, ma in ognuno di essi c’è un piccola L’Aquila ignara nonostante tutto delle sorti dell’altra o delle altre parti della sua stessa comunità.

Dicevo campi e alberghi. Nei campi gli sfollati hanno vissuto nel freddo, la pioggia e la grandine ha tormentato i nostri parenti e amici e conoscenti e cittadini fino a pochi giorni fa, quando di colpo è scoppiato il caldo, e col caldo sono emerse altre diverse problematiche. Negli alberghi noi abbiamo potuto rifocillarci, sapevamo che era qualcosa in quel momento di molto simile al paradiso, stavamo al caldo dentro strutture accoglienti, dove era salva l’intimità e la privacy, avevamo le docce e il bidè, lenzuola e asciugamani puliti. Io sono venuto a Montesilvano, qui in un albergo che si è rivelato da subito il centro di maggiore concentrazione di sfollati su questa parte di costa, e di smistamento delle informazioni. Subito hanno dato notizia dei dottori disponibili, un acconciatore ha fatto per diversi giorni capelli gratis a signore e signori. In quest’albergo capace di ospitare una quantità altissima di aquilani, arrivava La Repubblica gratuita. Negli alberghi c’è stata da subito facilità di comunicazione. Facilità che non abbiamo sfruttato. Se negli alberghi la comunicazione non ha impedimenti di sorta, la comunicazione fra i campi è difficile, e negli stessi campi è raro che esistano luoghi dove poter socializzare. Nei campi non arrivano i giornali, e la protezione civile senza una giusta motivazione non ha permesso di installare gratuitamente internet per la popolazione. I campi hanno un capo campo che è della Protezione Civile ma questi capi ruotano una volta ogni sette o dieci giorni e si avvicendano con coloro che arriveranno. Questa situazione impedisce che vi possa essere una auto organizzazione anche a livello di gestione sociale del campo o di gestione di aspetti importanti come una equa e corretta distribuzione delle risorse. In più la presenza della protezione civile è altissima, e in alcuni campi ho riscontrato una presenza di oltre ¼ sulla popolazione ospitata. E’ probabile che non tutti si rendano conto che questa massiccia “ presenza” ha dei costi decisamente rilevanti.

La situazione igienica nei campi risente delle condizioni climatiche, del fatto che le persone, anche persone che non si conoscono e con abitudini diverse, vivano nella stessa tenda, a gruppi di sei o otto persone. I bagni sono bagni chimici vengono svuotati una volta al giorno e nell’intero campo si diffonde l’insopportabile puzzo di liquame. Esistono campi su terreni pieni di stabbio e l’aria lì è irrespirabile, e in questi campi addirittura nella mensa non si riesce ad entrare. Ora è iniziato il problema delle epidemie e forse faranno dei vaccini, ma la situazione è pesante. Io sono potuto tornare a L’Aquila quasi quotidianamente, sono andato nei campi, ho parlato con le persone, mi sono reso conto da solo, come tanti altri di quale sia la situazione terribile dei miei concittadini. Ho parlato anche con le persone che si trovano sulla costa, con gli anziani, con i genitori che vogliono riscrivere i figli nelle scuole aquilane, ho parlato con chi ha finito i soldi ma vorrebbe tornare più spesso. Siamo sfollati ed è la nostra storia e dobbiamo interessarci di noi, di tutti noi per tenderci la mano.

Confesso che le parole dei miei concittadini spesso in questi giorni mi hanno fatto male. Quando parlo della condizione dei campi a chi è sulla costa la reazione è nervosa, è come se il solo parlarne creasse un problema di coscienza o mettesse in dubbio la salvaguardia del principio che ognuno è libero di fare delle scelte ed essere coerente con queste. C’è la paura che sotto sotto li si accusi di qualcosa, e in questi casi è evidente l’emergere di una rabbia, di una tensione che sfocia nel “ noi e voi ”, ” noi e loro ”, nella divisione. Poche volte le persone con cui ho parlato mi hanno chiesto: dimmi altro, dimmi di più, o magari parla di noi a chi è nei campi, di loro che anche noi soffriamo nonostante che la qualità della vita qui sia decente, e per alcuni aspetti buona … di loro che anche noi siamo distrutti nell’animo. Non tutti hanno avuto la sensibilità di mettersi nei panni degli altri, di chi per qualsiasi ragione sta peggio di noi, e per qualche strana ragione non riusciamo ad accettarlo, non riusciamo ad ammetterlo, ci scarichiamo la coscienza solo dicendo : ” E’ stata una loro scelta!”. La scelta fatta non implica che noi non possiamo non solo sentire ma farci carico delle difficoltà di tutta la comunità, e non implica accettare che qualcuno chiunque sia debba vivere in condizioni miserevoli.

Ho parlato anche con chi ha scelto di restare a L’Aquila a soffrire nei campi, e so che queste persone hanno accettato la propria scelta di vita e le responsabilità che ne conseguono. Il dato più evidente mentre ci parlo è che sono persone stremate, e sono logorate nell’animo e nel fisico, ed è come se non capissero come si faccia ad andar via, come si faccia a non dare un cenno, come se aspettassero un segnale, un messaggio, un qualcosa dai fratelli che hanno potuto riparare sulla costa. A distanza di più di un mese questo messaggio di solidarietà e condivisione della tragica esperienza non avviene, non è ancora arrivato. Tutto ciò mi rendo conto quando parlo con chi si trova nelle tende, che li mortifica e aumenta il loro senso di solitudine e abbandono, e a volte arrivano a provare rabbia ma poi ti dicono: ” è andata così e sarà lunga e sarà difficile “. Io in questi momenti, nel confrontarmi con queste persone, mi rendo conto di cosa sia una comunità, di come debba essere, di come debba funzionare. Io faccio teatro, mi capita di fare laboratori con i bambini, e ai bambini che hanno voglia di imparare dico: noi siamo un gruppo, ed un gruppo procede unito verso le sue mete. Nei laboratori cerco di fare in modo che se qualcuno ha delle difficoltà il gruppo crei le condizioni per ascoltare quelle difficoltà e poi superarle.

Io so perfettamente che L’Aquila già da tempo non era una comunità, e che per paura del suo provincialismo si è stretta in una gabbia sociale fatta di tante gabbie in cui ognuno potesse trovare il suo status di riferimento, condividendo la vita con altre persone che reputava del suo stesso status, rifiutando in qualche modo le altre realtà, o sopportandole di malavoglia, quasi per quieto vivere, creando così di fatto il provincialismo, che altro non è se non chiusura, paura del confronto, paura di mettere in gioco le proprie capacità.
Noi aquilani abbiamo rinnegato le nostre origini umili a cui ci ha abituato la natura e la terra in cui viviamo, e abbiamo fatto di tutto per cancellarle dalla nostra carta d’identità, non abbiamo considerato le specificità del territorio, ci siamo fatti la guerra fra di noi, abbiamo dato spazi commerciali a depredatori di soldi, che ci hanno derubato, stravolto l’urbanistica, minato gli equilibri socio economici della città, abbiamo preferito perdere la città capoluogo che avevamo un tempo pur di non dialogare.

Una comunità si muove in modo paritario, condivide le conoscenze e le informazioni, crea le condizioni per superare le difficoltà con l’aiuto di tutti. La comunità tiene conto dei più deboli, prende le mosse nelle sue decisioni da chi è più bisognoso. Oggi noi non siamo una comunità e in questa emergenza ognuno si confronta per come può con la sopravvivenza, ma il rischio è di considerare solo il proprio orto senza intuire la necessità di collegarsi con gli altri. Ora è oggettivamente difficile, molto più difficile per tante ragioni. Un problema enorme nel momento in cui ci si trova nelle nostre condizioni è la divisione dell’intera popolazione della città. Questo problema sembra evidente ma è nascosto: voglio dire che non mi sembra si comprenda a pieno la tragicità di cosa significhi non sapere o non interessarsi, e non prendere a cuore o in considerazione la sorte di tutti. In questa vicenda c’è chi ha perso tutto: la casa, i figli, i genitori, tutto ciò che era la propria vita, la propria gioia; c’è poi chi ha perso tanto ma gli affetti e le cose fondamentali della propria vita fortunatamente sono ancora intatte. In fine c’è chi non ha perso nulla e questo è un bene. La verità però che ci accomuna è che ci troviamo in una città fantasma, in una terra collassata dove la gente verrà a scattare delle foto per immortalare i fantasmi che vi girano dentro se gliene daremo modo, e non verrà a studiare, non verrà a divertirsi, a comprare merci, a vivere di cultura, a socializzare. Questo è il grado zero a cui ci riporta la terra, e gli eventi, questa è la sfida che ci impone la vita per andare avanti e cambiare davvero qualcosa in una società che deve tornare a riflettere. Possiamo ribaltare il nostro punto di vista, ognuno di noi può farlo, possiamo partecipare e lasciare che tutti partecipino.

Non si arriva a comprendere che la sorte di tutti è anche la nostra? si tende a restare nei nostri piccoli mondi quasi come se nulla fosse successo, o perché non si sa cosa accadrà, chiusi nella nostra conformazione biomorfologica di montanari restii ad aprirci, restii a fidarci … Tale attitudine nei secoli e soprattutto negli ultimi anni ha portato la società aquilana a vivere divisa in compartimenti stagno, a vivere in una comunità il cui tessuto sociale era già estremamente intaccato e logorato. Diciamo parole in questi giorni, non facciamo discorsi, non abbiamo in realtà un progetto comune, aspettiamo la manna dal cielo, e sembriamo quegli animali domestici che vogliono bene a un padrone perché all’ora di cena gli dà da mangiare, dato che quella è la loro unica preoccupazione. A volte mi chiedo se stiamo guardando la stessa realtà: questa volta non è come quando dicevamo poveretti guardando gli sfollati dell’Umbria o di altre regioni. Questa volta è toccata a noi, e gli altri a modo loro con le loro difficoltà si sono auto organizzati, non hanno permesso che persone di fuori, o solo persone di fuori si accollassero responsabilità, oneri, e quindi privilegi. Sfollati c’è un decreto definito ammazza L’Aquila, e piano piano lo stanno cambiando, abbiamo i nostri fratelli a L’Aquila a cui non permettono tante cose, e si sentono come prigionieri.

Qui sulla costa ci sentiamo come pacchi, come merci e qualcuno è pronto a lucrare su di noi, a inviarci, spostarci. Anche all’Aquila i nostri fratelli sono merci per coloro che li ospitano, e glielo rinfacciano, e glielo ripetono. Ancora sappiamo tutti e bene che dall’inizio di questa vicenda ai nostri rappresentanti politici non è stata data possibilità di muoversi liberamente, e tutt’ora non possono scegliere per noi, non possono decidere. C’è una dittatura dell’emergenza, un’emergenza che muove tanti soldi. Abbiamo le case crepate, crollate, la nostra identità infranta, e sembra agli altri, a chi viene ad aiutarci, che siamo convinti che sia loro dovere, non il nostro quello di trovare la soluzione per la nostra tragedia. L’Italia, il mondo sentono su questa vicenda cifre irreali: a ogni pié sospinto si parla di case per tredicimilapersone, che solo a pronunciarlo senti che è qualcosa di immenso, e l’Italia pensa “ah sono tredicimila e andranno in casa a fine novembre”. Tutta questa gente non sa che siamo qualcosa come OTTANTAMILASFOLLATI e allora capisci che la cosa è più grande … e diventa impossibile se pensiamo che dall’inizio si è fatto di tutto per non riconoscerci il danno subito e quindi il dovuto risarcimento.

OTTANTAMILAPERSONE sono una potenza anche se non hanno nulla, o meglio soprattutto in una situazione come la nostra di gente che aveva tutto e lo ha perso in trenta secondi. E c’è chi ha perso la vita per la negligenza degli specialisti, di chi non è stato in grado di pensare una adeguata comunicazione per far capire che il pericolo era effettivamente percepito da tutta la comunità, ed era reale e dunque era giusto e necessario attivare un piano che desse una scelta agli studenti e agli aquilani per non stare in casa quella fatidica notte. Oggi quegli stessi specialisti ci dicono che così come non era necessario restare fuori casa quella notte oggi è indispensabile non rientrare nel centro storico, dove stanno attuando una politica di attesa affinché tutto crolli, affinché domani soprattutto chi ha le case in centro si debba indebitare per poi lasciarle al mostro FINTECNA, in modo tale da lasciare a questo mostro ogni cosa: la nostra storia, la nostra memoria, la nostra identità, le nostre radici. Bhè io dico che OTTANTAMILAPERSONE sono qualcosa che mette paura a chiunque, anche al mostro che oggi è silenzioso ma sta agendo già a trescare per appalti e subappalti drogati, che ci hanno già ucciso una volta. OTTANTAMILAPERSONE mettono veramente paura solo se sono unite, se vogliono la stessa cosa e quella rivendacono, se dicono la stessa cosa, se si riconoscono riguardo a questa vicenda negli stessi valori senza distinzione di sorta: di professione, di reddito, di visione politica …

Per fare questo ci troviamo di fronte un fatto: il tessuto sociale di L’Aquila deve subire una sorta di rivoluzione, tutti ci dobbiamo sentire partecipi, questo terremoto ci dà la possibilità di dialogare, di capire che doveva essere così prima e dovrà essere così dopo, ci dà la possibilità di mantenere viva la nostra capacità critica, ma soprattutto quella propositiva … In questi giorni e per gli anni a venire abbiamo una facilitazione rispetto al mondo intero possiamo riconoscere la nostra origine e da lì ripartire, sentirsi aquilani e fare qualcosa per la comunità, affinché questo sentimento che ci portiamo dentro, questo rammarico, questa rabbia, si trasformino in atti concreti di ricostruzione del tessuto sociale come di quello architettonico, urbanistico e cittadino.

Un commento

  1. ok. sono pienamente d’accordo. mi sembra colta in pieno la grande chance che abbiamo, come di una resurrezione. Il terrmoto ha dovuto, per forza, far capire a tutti che abbiamo una grande opportunità, quella di riconquistare un giusto rapporto con la vita e, soprattutto, la possibilità di costruire una comunità.
    Paradossalmente, se non avessimo ricevuto aiuti e avessimo ricominciato con le nostre mani, avremmo sperimentato (nel senso tecnico del termine) la contiguità, la vicinanza, la necessità gli uni degli altri.
    Adesso dobbiamo, abbiamo il dovere morale anche nei confronti dei nostri figli, ricostruire ma non solo le case: approfittiamo, e facciamolo tutti, della oppurtunità di ricostruire “rinascendo”.
    Torniamo a fare dell’Aquila un grande città, modello sociale e culturale, come è stata prima di noi.
    Dopo le parole, i fatti: come facciamo? dove ci vediamo? (ovviamente in rete, ma …… più presenti: parliamo tutti, scambiamoci le opinioni, facciamo passi avanti).
    La comunità può agire controllando, pretendendo di controllare ogni singolo passo delle “truppe di occupazione”, per esempio potremmo pretendere immediatamente:
    bilanci trasparenti (come vengono spesi quotidianamente i soldi per i terremotati)
    chiarezza e sincerità: chiarezza delle informazioni e sincerità nelle analisi dei come e perchè (anche le motivazioni delle scelte personali direi che andrebbero un po’ discusse: per creare dialogo ci vuole il coraggio del confronto)
    i nostri amministratori, gli uffici locali fuori dal dicomac: il sindaco fra la gente, raggiungibile immediatamente da tutti, i beni culturali non blindati, gli elenchi dei sopralluoghi sui beni vincolati resi pubblici, etc
    i collegamenti internet e telefonici per tutti (si, la protezione civile aveva da subito a disposizione una squadra di tecnici telecom, ma era possibile avere le linee solo dove decidevano loro: perfino le aziende che riaprivano hanno dovuto arrangiarsi da sole)
    la priorità nelle commesse alle aziende locali (è vero che le ruspe nel centro sono del gruppo Marcegaglia?)
    una coerente e completa gestione delle informazioni, che se restano frammentarie creano confusione, un raccordo fra società civile, istituzioni, imprese e associazioni di categoria sindacali e datoriali
    una maggiore collaborazione progettuale e fattuale dei sindaci della nostra ormai evidente città – territorio
    non ci scordiamo che sarà lunga, molto lunga, e dovremo vigilare per anni.
    buon lavoro

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